Domenico Riccio - Sigmund
Sigmund, primo volume della “Trilogia della Giustizia” (Sigmund, Carl, Erich), è un’analisi profonda e provocatoria dei processi cognitivi che governano il sistema giudiziario. Questo libro guida il lettore alla scoperta della “creazione” della colpevolezza, mettendo in luce come la colpa non sia un fatto, ma una costruzione psicologica. Partendo dal concetto che la nostra civiltà è fondata su un Dio “colpevole” (Gesù), condannato a seguito di un processo regolare, l’autore esplora come nelle “fabbriche della colpevolezza” pregiudizi cognitivi, distorsioni e bias influenzino le decisioni. Attraverso un’analisi incisiva del processo, si affrontano i problemi di comunicazione tra le parti, il ruolo ambiguo del pubblico ministero e il potere della narrazione. Il volume invita il lettore a ripensare radicalmente le basi stesse della giustizia e si chiude con una proposta radicale: l’abolizione della figura del pubblico ministero, le cui funzioni potrebbero essere affidate all’Avvocatura dello Stato.
Indice
L’Opera
Sigmund – La colpa si crea
L’Autore
Sigmund
Ho presentato il dorso ai flagellatori
Introduzione
Parte I – La colpa
Colpa, disonore, paura
Il giudizio sociale e la paura del fallimento
Il peccato originale ovvero una civiltà fondata sulla “colpa”
Il battesimo
Caino e Abele ovvero dell’origine divina della distinzione tra etica e diritto
Gesù, l’archetipo dei colpevoli
La colpa è la via della salvezza
Il libero arbitrio
Il processo a Gesù: colpa, processo, condanna, pena, rinascita
Processo a Socrate
Colpevoli, un florilegio
Le condanne hanno fatto la storia
Parte II – I bias
La pubblica accusa parla per prima: la cascata di bias
La pubblica accusa influenza l’opinione pubblica che influenza i giudici
L’imprenditore di policy
Le asimmetrie informative
Il cropping
La legge di Parkinson o l’espansione del nulla
Dalla “formula del caffè” al “punto di svanimento” alla “paralisi dell’incompetenza”
Il framing
Il priming
L’imprinting
L’ancoraggio
L’hysteron proteron
Il post hoc propter hoc
La correlazione non implica la causazione
L’insensibilità alle dimensioni del campione
L’euristica della semplificazione
Il pregiudizio, il bias delle conclusioni, il bias di desiderabilità e il bias di conferma
Le suggestioni
La cultura organizzativa
La cultura burocratica
I cani di Pavlov
I piccioni di Skinner
L’effetto Lucifero
La cecità attenzionale
Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur
Il giudice decisionista
Giudici decisionisti o attendisti: comunque sbagliano
I giudici decisionisti e l’urgenza: la matrice di Eisenhower
I giudici attendisti e il rumore
La fallacia della memoria e la “falsa memoria”
Il Wysiati
L’euristica della rappresentatività
L’euristica della disponibilità
La ricerca automatica di coerenza
Le correlazioni illusorie
I meccanismi associativi
L’ attenzione focalizzata
Il bias di conferma
La fluidità cognitiva
L’apprendimento implicito
L’euristica dell’affetto
L’ignoranza della probabilità
La fallacia dello scommettitore
La “colpevolezza autoalimentata”
L’effetto stranezza
La paura
Parte III – La comunicazione
Il ruolo della comunicazione imperfetta
Il doppio legame o ingiunzione contraddittoria
I punti di Schelling
I leoni che parlano
La “comunicazione paradossale”
La comunicazione patologica
L’avversione inconscia nei confronti della comunicazione patologica
La comunicazione paranoide
La comunicazione schizoide
La comunicazione schizotipica
La comunicazione borderline
La comunicazione istrionica
La comunicazione narcisistica
La comunicazione ossessivo-compulsiva
La comunicazione maniacale e psicotica
La comunicazione schizofrenica
La comunicazione schizo-affettiva
Parte IV – De jure condendo
La separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici è un falso problema (o una falsa soluzione)
Dovrebbe essere vietato ai pubblici ministeri di fare questo mestiere per tutta la vita lavorativa
Alla lunga i pubblici ministeri diventano cinici e spietati come i criminali che credono di combattere
La paranoia pan-penalista dei pubblici ministeri di lungo corso
Meglio eliminare i pubblici ministeri e attribuirne le funzioni alla avvocatura dello Stato con obbligo di rotazione degli avvocati tra le materie
Conclusioni
Introduzione
Come si diventa colpevoli nelle “fabbriche della colpevolezza”?
Immagina di camminare in un grande stabilimento. Le macchine lavorano incessantemente, producendo un unico prodotto: “colpevoli!”.
Questa fabbrica non è un’industria come tutte le altre; è una metafora per il nostro sistema giudiziario, una macchina complessa che trasforma accuse e sospetti in sentenze e condanne. Ogni ingranaggio di questo sistema contribuisce alla creazione di una verità legale, spesso lontana dalla verità fattuale. Il prodotto finale, un “colpevole”, è il risultato di processi che affondano le loro radici nelle profondità della nostra civiltà, nei bias cognitivi umani, nelle distorsioni comunicative e nelle dinamiche istituzionali.
In primo luogo occorre riconoscere che la nozione di colpa è una componente essenziale della nostra cultura, tanto che è impossibile separarla dalla struttura stessa della civiltà occidentale. Le nostre storie, le nostre leggi e persino la nostra religione sono intrise di questo concetto. Nel mondo occidentale, la colpa non è solo un attributo dell’individuo, ma è un peso che grava sull’intera società. Ciò che rende unica la nostra cultura è l’idea di un Dio “colpevole”, un Dio che, attraverso la figura del Cristo, si fa carico delle colpe dell’umanità. Questa idea ha permeato il nostro sistema giudiziario, infondendo in esso una necessità quasi sacrale di identificare e punire i colpevoli.
In questo libro, ci addentreremo nelle profondità di questi problemi, esplorando come bias cognitivi, errori, fallacie e euristiche possano portare a errori giudiziari devastanti. Le sentenze di condanna, che dovrebbero rappresentare l’espressione ultima della giustizia, sono spesso errate non a causa della malafede di chi giudica, ma a causa di meccanismi cognitivi intrinseci che influenzano il modo in cui i giudici percepiscono e interpretano le informazioni. Immaginate, per esempio, un giudice che, influenzato inconsapevolmente dal “bias di conferma”, tenda a dare più peso alle prove che confermano la sua ipotesi iniziale, trascurando o minimizzando quelle che la contraddicono. Questo semplice errore, che può sembrare banale, può avere conseguenze drammatiche, portando alla condanna di un innocente o alla liberazione di un colpevole.
Inoltre, la comunicazione nel processo, sia essa sotto forma di testimonianze, intercettazioni o altre prove, è quasi sempre viziata o addirittura patologica. Anche quando sembra chiara, non lo è mai del tutto. Le parole, le frasi, le intonazioni, tutto può essere frainteso o manipolato, volontariamente o meno. Ad esempio, una testimonianza resa sotto pressione o dopo un lungo interrogatorio potrebbe apparire coerente e credibile, ma nascondere insidie e distorsioni che sfuggono all’occhio meno attento. In un contesto così complesso, affidarsi ciecamente alla comunicazione verbale e non verbale può rivelarsi un errore fatale.
Se i bias cognitivi rappresentano una minaccia interna al processo decisionale, i problemi di comunicazione amplificano ulteriormente queste distorsioni. Nei tribunali, le informazioni non sono semplicemente dati oggettivi; vengono trasformate e reinterpretate da avvocati, testimoni, giudici e giurati. Ogni parola può essere fraintesa, ogni testimonianza può essere percepita in modi diversi a seconda di chi ascolta. La comunicazione nel contesto giudiziario è una battaglia di retorica, dove il modo in cui le informazioni vengono presentate spesso conta più dei fatti stessi.
Un esempio classico è il modo in cui le testimonianze oculari vengono presentate e percepite. Studi hanno dimostrato che i testimoni oculari, pur essendo sinceri, possono sbagliarsi gravemente, eppure la loro sicurezza spesso convince le giurie. Inoltre, le informazioni trasmesse da una parte all’altra (dai testimoni agli avvocati, dagli avvocati ai giudici) subiscono continue alterazioni, come in un gioco del telefono rotto.
Questi problemi di comunicazione non solo aumentano il rischio di errori giudiziari, ma contribuiscono a creare una realtà parallela in cui la “verità” processuale può divergere enormemente dalla verità fattuale.
In un’aula di tribunale, le decisioni sono spesso prese sotto pressione, con informazioni incomplete e in situazioni emotivamente cariche. Questo crea terreno fertile per una serie di bias cognitivi. Per esempio, l’“effetto di conferma” porta giudici e giurie a cercare prove che confermino le loro ipotesi iniziali di colpevolezza, ignorando quelle che potrebbero scagionare l’imputato. L’“effetto di ancoraggio” può influenzare la severità di una condanna basandosi su un’informazione iniziale fuorviante, come l’accusa proposta dal pubblico ministero.
Ecco perché le sentenze di condanna sono spesso erronee. Non perché i giudici siano incompetenti, ma perché sono esseri umani e come tali soggetti a pregiudizi inconsci. Una giustizia che si basa su impressioni istantanee e su supposizioni rischia di condannare innocenti, a volte con conseguenze devastanti.
Sacco e Vanzetti, due immigrati italiani condannati a morte negli Stati Uniti negli anni ‘20 è un caso emblematico. Condannati per rapina e omicidio, nonostante prove controverse e testimonianze discordanti, sono diventati simboli internazionali di ingiustizia. Il pregiudizio etnico e politico, i bias cognitivi e la pressione sociale hanno portato a una condanna che molti, oggi, ritengono profondamente sbagliata. Le loro esecuzioni sono state un monito di quanto il sistema giudiziario possa fallire, trasformando l’aula del tribunale in un’arena di pregiudizio più che di verità.
Rubin “Hurricane” Carter, un pugile afroamericano condannato ingiustamente per triplice omicidio negli Stati Uniti negli anni ‘60. La sua storia, portata alla ribalta dalla canzone di Bob Dylan e dal film “Hurricane”, rivela come la razza, le distorsioni cognitive e le manipolazioni comunicative possano condurre a un errore giudiziario devastante. Anni dopo, la sua condanna fu annullata, ma solo dopo aver passato quasi vent’anni dietro le sbarre per un crimine che non aveva commesso. Questi esempi storici ci mostrano come, nonostante i progressi tecnologici e le riforme giuridiche, il rischio di errori persiste.
Di fronte a un sistema così intrinsecamente fallibile, emerge la necessità di riforme profonde. Una delle proposte concrete potrebbe essere l’eliminazione della figura del pubblico ministero come la conosciamo oggi. La concentrazione di potere nelle mani di chi accusa è un fattore di squilibrio che può accentuare le distorsioni cognitive e comunicative.
L’alternativa? Attribuire queste funzioni all’avvocatura dello Stato, imponendo un obbligo di rotazione tra gli avvocati, così da evitare che l’accusa diventi una professione a sé stante, con i suoi pregiudizi istituzionalizzati.
La rotazione delle funzioni garantirebbe che nessun avvocato si identifichi eccessivamente con il ruolo di accusatore o difensore. In questo modo, si potrebbe ridurre l’influenza di quei bias cognitivi che portano a vedere il mondo in bianco e nero, dividendo le persone in colpevoli e innocenti senza considerare tutte le sfumature della realtà.
Le fabbriche della colpevolezza sono un prodotto della nostra civiltà, dei nostri cervelli fallibili e delle nostre istituzioni imperfette. Comprendere i meccanismi che portano alla condanna di individui è il primo passo verso la costruzione di una giustizia più equa. Solo riconoscendo i nostri limiti e cercando di superarli possiamo sperare di ridurre il numero di innocenti che, ogni giorno, vengono trasformati in colpevoli dalle macchine del sistema giudiziario.