Domenico Riccio - La Mediocrità
Una volta si diceva in medio stat virtus, oggi il mezzo è un abisso da evitare. Tutti vogliono essere speciali. Diversi. Indimenticabili. Anche solo per un istante, anche solo per qualcosa di ridicolo. Meglio la follia che l’anonimato, meglio l’imbarazzo che l’invisibilità. Così si moltiplicano i talenti immaginari, le biografie costruite, le vite-spettacolo. Non importa cosa fai, importa che qualcuno ti guardi farlo. La mediocrità è il grande nemico. Ma se tutti cercano di essere straordinari, nessuno lo è più. Il risultato? Un mondo dove l’eccezione è la norma, l’ordinario è un crimine e il rumore è l’unico modo per esistere. Con uno stile tagliente, paradossale, ermetico, “La Mediocrità” smonta la fobia collettiva dell’ordinario e ne svela il più grande paradosso: la ricerca ossessiva della straordinarietà ha reso tutti tragicamente uguali. E se la vera ribellione fosse proprio il contrario? Nessuno sfugge alla mediocrità. Chi smette di provarci, vince.
“Quelli diversi sono tutti uguali”
Indice
L’Opera
La mediocrità o Gevurah – La mediocrità: l’ossessione dell’eccezionalità e il declino della normalità
L’Autore
“Quelli diversi sono tutti uguali”
La mediocrità o Gevurah
La mediocrità come destino, maledizione o salvezza
Parte I – Il marchio della mediocrità
In medio stat virtus, ma nessuno vuole starci
Il terrore dell’anonimato
La banalità dell’eccezione
L’ordinario è una colpa
Il talento immaginario
Tutti geni, nessun genio
L’autenticità prefabbricata
Mediocre è chi non si fa notare
Il culto della differenza
Essere speciali per essere uguali
Parte II – L’evasione dalla mediocrità
Farsi vedere è meglio che fare
L’industria dell’unicità
Sopravvivere al giudizio altrui
Il terrore del silenzio
Nascere normali, morire straordinari
Il mito dell’”altro” straordinario
La vergogna della semplicità
La competizione dell’inutile
Il premio della visibilità
Chi non si distingue scompare
Parte III – La vendetta della mediocrità
L’eccesso diventa norma
L’epidemia dell’insensato
L’ossessione della performance
Il talento obbligatorio
La normalità è il nuovo scandalo
L’idiozia travestita da genio
Il grande circo del futile
La spettacolarizzazione dell’insignificante
Il ritorno dell’uomo comune
Nessuno sfugge alla mediocrità
Conclusioni: l’inevitabile destino della mediocrità
La mediocrità come destino, maledizione o salvezza
C’è un terrore diffuso che attraversa ogni angolo della società contemporanea, un’ombra che incombe su ogni scelta, su ogni gesto, su ogni pensiero. Non è la paura del fallimento, non è il timore della sofferenza, non è l’angoscia della morte. È qualcosa di più sottile, più insidioso, più inconfessabile: la paura della mediocrità. Nessuno vuole essere mediocre. Nessuno vuole sentirsi parte di quel grande flusso indistinto di esistenze anonime che scorrono senza lasciare traccia. La mediocrità è diventata la nuova vergogna, la condizione da cui tutti cercano di fuggire, l’accusa più infamante che si possa ricevere.
Eppure, per secoli, la mediocrità è stata considerata una virtù. “In medio stat virtus”, dicevano i latini, e con questo non celebravano la mediocrità intesa come mancanza di talento, ma l’equilibrio, la misura, la saggezza del non eccedere né in un senso né nell’altro. Un tempo si ammirava chi sapeva stare nel mezzo, chi non cadeva negli estremi, chi non cercava costantemente di superare gli altri, chi viveva con compostezza, con sobrietà, con dignità. Ma oggi tutto questo è stato spazzato via. Viviamo nell’era dell’esagerazione, della performance continua, dell’obbligo di distinguersi. E se la virtù un tempo era stare nel mezzo, oggi il mezzo è diventato sinonimo di fallimento.
La società contemporanea ha costruito un nuovo culto: il culto della straordinarietà. Bisogna essere speciali, bisogna essere unici, bisogna emergere a tutti i costi. Non è necessario essere i migliori, non è necessario essere i più intelligenti, non è necessario avere talento: l’importante è essere diversi. Anche solo in modo artificiale, anche solo in modo ridicolo, anche solo in modo insignificante. L’importante è distinguersi. Non si cerca più la qualità, si cerca la differenza. La notorietà ha sostituito il merito, la visibilità ha preso il posto del valore, il riconoscimento ha annullato l’importanza della sostanza. Non conta più cosa fai, ma che qualcuno ti veda farlo.
Questo ha creato un’ansia collettiva, un’ossessione patologica per il riconoscimento. Non si può più essere semplicemente qualcuno, si deve essere qualcuno di speciale. Si deve costruire un’identità che si distingua, che lasci il segno, che venga notata. Non importa quanto superficiale sia questa identità, non importa se è vuota, non importa se è solo una costruzione artificiale. L’unico fallimento imperdonabile è essere uno tra tanti. La mediocrità è diventata il grande nemico, lo spettro da cui tutti cercano di fuggire.
E così nasce un circo grottesco, una competizione dell’insensato, una gara infinita a chi riesce a emergere in qualsiasi modo possibile. Persone comuni diventano celebrità per qualche gesto privo di significato, per qualche sfida senza senso, per qualche provocazione che dura il tempo di una notifica. Si cerca disperatamente di essere speciali, anche quando non si ha nulla di speciale da offrire. Si creano identità artificiali, si costruiscono personaggi, si esibiscono vite perfette che esistono solo nella rappresentazione che se ne dà.
Ma tutto questo è davvero una fuga dalla mediocrità? O è solo un’altra forma di mediocrità, più rumorosa, più esasperata, più visibile? La ricerca ossessiva della straordinarietà non è forse il sintomo stesso di una società che non ha più nulla di autenticamente straordinario? Se tutti cercano di essere speciali, la specialità diventa una norma, e la norma è, per definizione, mediocrità. Così si assiste a un paradosso: nella lotta per sfuggire alla mediocrità, la società ha creato una mediocrità ancora più grande, una mediocrità di massa, una mediocrità spettacolarizzata in cui nessuno è più veramente unico, perché tutti stanno facendo esattamente la stessa cosa.
Ma c’è un’altra forma di mediocrità, più sottile, più difficile da riconoscere. È la mediocrità di chi si crede superiore, di chi guarda dall’alto in basso questa corsa insensata e si compiace di non prendervi parte. È la mediocrità di chi si sente speciale semplicemente perché rifiuta il gioco, di chi si costruisce un’identità basata sul proprio distacco, di chi crede che il vero valore sia nel non cercare il riconoscimento. Anche qui, l’illusione è la stessa: l’idea che la mediocrità sia qualcosa da cui si possa fuggire, che si possa essere superiori agli altri semplicemente negando le dinamiche che regolano il mondo.
Ma la verità è che nessuno sfugge alla mediocrità. È una condizione umana, è la norma della nostra esistenza. La vera tragedia non è essere mediocri, è credere che la mediocrità sia un insulto. È credere che l’unico modo per avere valore sia distinguersi, farsi notare, lasciare il segno. È credere che una vita normale sia una vita sprecata, che una persona che non diventa celebre sia una persona che ha fallito.
Forse il vero errore è stato associare la mediocrità alla mancanza di significato. Forse il vero problema è stato credere che l’unico modo per dare senso alla propria esistenza sia emergere. Ma il senso non si misura in follower, in like, in visibilità. Il senso non si costruisce attraverso l’attenzione degli altri. Il senso è qualcosa di più profondo, qualcosa che non ha bisogno di essere esibito, qualcosa che esiste anche quando nessuno lo vede.
Gevurah, nella tradizione cabalistica, è la forza della restrizione, del limite, della misura. È l’opposto di Chesed, la pura espansione, la pura generosità senza confini. Ma senza Gevurah, senza il limite, senza la capacità di contenersi, Chesed diventa caos, diventa un’energia incontrollata che perde ogni valore. Forse la mediocrità è proprio questo: un limite necessario, un confine che dà significato all’eccezionalità, un equilibrio che impedisce al mondo di sprofondare nel rumore senza senso.
Forse il problema non è la mediocrità. Forse il problema è la paura della mediocrità. Forse il vero pericolo non è essere uno tra tanti, ma l’ossessione di non esserlo. E forse, in fondo, la vera libertà è smettere di preoccuparsene.