Domenico Riccio - Gengis Khan

Il vento della steppa non porta ricordi, solo cenere. Dalle gelide distese mongole alle torri d’oro di Samarcanda, dalle pianure cinesi insanguinate alle mura sbriciolate delle città persiane, questa è la cronaca di un uomo nato per divorare il mondo. Gengis Khan, il flagello delle civiltà, il dominatore di terre sterminate, il conquistatore che prese tutto e lasciò solo il vuoto. Un anonimo cronista, testimone di ogni battaglia, scrive con l’inchiostro e con il sangue la storia dell’uomo che trasformò le steppe in un impero, solo per vederlo sgretolarsi come sabbia tra le dita. Tra alleanze infrante, tradimenti e vendette, tra città che scompaiono nel fuoco e popoli ridotti in polvere, questa narrazione epica mescola leggenda e verità in uno stile antico, favolistico, iperbolico, intriso di ferocia e meraviglia. Ma cosa resta quando l’ultimo cavallo si ferma, quando l’ultimo tamburo tace? Solo il vento. Il vento che porta via ogni nome, ogni vittoria, ogni destino. Chi prende tutto scoprirà che tra le mani non resta nulla.

Indice
L’Opera
Gengis Khan – L’uomo che volle tutto e trovò il nulla
L’Autore
Gengis Khan
Del ferro e del vento
Parte I – La fame del lupo solitario: la nascita dell’ira e della fame che non conosce sazietà
Del cielo eterno e della nascita del figlio del vento
Il latte avvelenato: tradimenti e sangue nella culla
Il ragazzo abbandonato e la terra che non dà rifugio
Fratelli d’ombra e il primo sangue versato per il potere
Le steppe come maestre: freddo, fame e vendetta
Il cavallo rubato e l’incontro con la profezia del ferro
Temüjin stringe il nodo del giuramento eterno
La donna rapita e il furore che incendia le vene
La lama si alza: il khan delle diecimila tende cade
Gengis Khan, signore del cielo vuoto e della terra sterminata
Parte II – Il diluvio di ferro e di sangue: l’uomo divenne tempesta e l’erba non crebbe più al suo passaggio
Il grande tamburo rimbomba: le tribù si piegano o scompaiono
I fiumi mutano colore: rossa è l’acqua delle pianure cinesi
La città di pietra sfida il figlio della steppa: solo cenere rimane
La freccia che oscura il sole: la battaglia del deserto infinito
Il mercante spezzato e l’ira che travolge l’impero di Persia
Le torri cadono, le biblioteche bruciano, i fiumi portano i cadaveri
Samarcanda la splendida cade nel silenzio della morte
Il giogo d’oro spezzato: l’orda arriva fino all’ultimo mare
Le ossa sepolte nella neve: l’Europa guarda e trema
Il falco senza preda: l’inizio del vuoto nel cuore del conquistatore
Parte III – Polvere nel vento, sangue nella terra: come tutto fu preso e come tutto si dissolse nel nulla
Le steppe sussurrano: il khan teme l’ombra del tempo
I figli come lupi affamati lacerano l’eredità
L’impero senza radici si sfalda come sabbia secca
L’ultimo giuramento e il veleno che corre lento nelle vene
Il sepolcro senza nome, la leggenda senza pace
Dove fu vita ora è deserto: il prezzo della fame insaziabile
Il cronista scrive con inchiostro e sangue ciò che resta
La cenere nel vento e l’eco del nome perduto
Il nulla che divora il tutto: la fine del sogno d’acciaio
Del destino degli imperi e del vuoto che attende ogni conquistatore
Conclusioni: il vento sopra le ossa

Del ferro e del vento
Scrivo queste parole con la consapevolezza che il tempo le divorerà, come ha divorato ogni cosa. Scrivo con la mano consumata dagli anni, con la mente che ha visto troppo, con il cuore che non può più stupirsi del bene o del male, perché ha compreso che sono la stessa lama affilata, impugnata da mani diverse. Scrivo non per gloria, perché la gloria è fumo nel vento; non per onore, perché l’onore è una menzogna che si racconta agli stolti. Scrivo perché ho visto. Scrivo perché ero lì.

Io, servo della stirpe del Khan, io che l’ho visto nascere, crescere, combattere e morire. Io che ho calcato i campi di battaglia quando le steppe ruggivano sotto gli zoccoli dei cavalli, quando le città cadevano come alberi abbattuti dalla tempesta, quando il cielo si oscurava per il fumo delle biblioteche in fiamme, quando il sangue scorreva più abbondante dell’acqua nei fiumi. Io che ho ascoltato le ultime parole degli uomini giustiziati, che ho visto i sovrani inginocchiarsi prima di essere calpestati, che ho contato le teste ammassate a piramide sulle mura abbattute. Io che ho sentito il lamento delle madri, il pianto dei bambini, la risata feroce dei vincitori, il sibilo del vento tra le rovine.

Io ho seguito l’uomo che prese il mondo con le mani nude e lo strinse fino a spezzarlo. Io ho visto Temüjin, il ragazzo abbandonato nella steppa, diventare Gengis Khan, il flagello della terra. Ho visto la sua fame insaziabile, quella fame che non cercava ricchezze, non cercava oro, non cercava piaceri, ma solo dominio, solo il brivido della vittoria, solo la certezza che ogni uomo, ogni donna, ogni regno, ogni città si sarebbe piegata al suo volere o sarebbe stata cancellata dalla storia.

Questo libro è la mia testimonianza. Non scrivo come poeta, non scrivo come cantore di corte, non scrivo per adulare i vincitori né per confortare i vinti. Scrivo come cronista, come occhio che ha visto, come mano che ha annotato ogni cosa con l’inchiostro e con il sangue. Scrivo perché ciò che è stato non cada nel silenzio, perché il terrore e la gloria non si dissolvano come nebbia.

Non aspettatevi giudizio in queste pagine. Il Khan non fu né santo né demone, né dio né bestia. Fu tempesta, fu spada, fu fiamma. Fu la legge della steppa fatta uomo, fu il vento che nessuno può fermare. I suoi nemici lo chiamarono flagello, i suoi uomini lo chiamarono padre, la storia lo ricorderà come colui che prese tutto e non lasciò nulla.

Questa è la sua storia. Questa è la storia del più grande impero mai visto sulla terra. Ma è anche la storia della polvere che tutto divora, della fine che attende ogni conquistatore, del vuoto che si apre là dove un tempo c’era solo forza.

Leggete, se avete cuore abbastanza per sopportare.

Leggete, se volete conoscere il destino di chi prende il mondo e lo vede dissolversi tra le dita.

Leggete, e ricordate: tutto ciò che sale, infine cade.

Io, che scrivo queste parole, non ho nome che meriti di essere ricordato. Io non sono stato re, né condottiero, né sacerdote, né saggio. Io sono stato l’ombra che segue la fiamma, l’occhio che osserva senza essere visto, la mano che annota senza intervenire. Se il Khan fu il vento, io fui la polvere che quel vento sollevò e trascinò lungo la terra sterminata della sua gloria e della sua rovina.

Sono nato in una terra dove la vita vale meno di un capello di cavallo, e sono vissuto accanto a uomini che sapevano che la morte è il prezzo di ogni respiro. Quando il Khan venne al mondo, il suo pugno stringeva un grumo di sangue, segno che il cielo stesso gli aveva affidato il destino di comandare. Io lo vidi da bambino, mentre il gelo gli mordeva la pelle, mentre la fame gli scavava le ossa, mentre l’abbandono gli insegnava che nessuno può fidarsi di nessuno. Lo vidi farsi uomo con la spada tra le mani, con gli occhi di ferro, con il cuore che batteva solo per la conquista.

Ero lì quando giurò sotto il cielo eterno che nessuno l’avrebbe più tradito. Ero lì quando i primi fiumi si tinsero di rosso, quando i primi nemici caddero in ginocchio, quando il suo nome iniziò a viaggiare più veloce del vento, precedendolo come un uragano. Lo vidi guardare l’orizzonte e giurare che nulla sarebbe rimasto fuori dalla sua presa.

Ma io ero lì anche quando la grande ombra cominciò a incrinarsi. Quando i figli iniziarono a guardarsi con sospetto. Quando le città conquistate smettevano di bruciare e iniziavano a essere dimenticate. Quando l’eco del suo nome divenne più forte della sua voce. Ero lì quando il Khan, il lupo solitario delle steppe, cominciò a temere il tempo più di quanto avesse mai temuto i suoi nemici.

Scrivo questa cronaca perché ho visto l’inizio e ho visto la fine. Ho visto le steppe riunirsi sotto un solo stendardo, e ho visto l’impero spezzarsi in mille frammenti. Ho visto il cielo vuoto sopra la tomba senza nome di colui che credeva di poter dominare il mondo.

Ora il mio compito è finito. Il vento delle steppe ha portato via gli eserciti, ha disperso i nomi, ha cancellato le orme. Ma finché queste parole rimarranno, almeno per un istante, il Khan vivrà ancora. Non nel ferro, non nel fuoco, non nel sangue. Ma nel ricordo di ciò che fu e di ciò che, infine, nemmeno il più grande conquistatore di tutti i tempi poté evitare: il nulla.

Il vento soffia. Il ferro si arrugginisce. La storia attende.