Domenico Riccio - Carl
“Carl” è il secondo capitolo della “Trilogia della Giustizia” (Sigmund, Carl, Erich). Un’immersione nel labirinto del sistema giudiziario, nelle “fabbriche della colpevolezza”, dove la verità non esiste di per sé, ma si costruisce, pezzo per pezzo. Cos’è la giustizia, se non un fragile equilibrio tra percezione e pregiudizio? In un mondo che idolatra la prova scientifica come oracolo infallibile, questo libro svela un paradosso: più la prova si perfeziona, più la verità sfugge. È una finzione. Le indagini, i test, le sentenze: tutto si muove su un terreno scivoloso, dove il dubbio e l’errore diventano protagonisti. E la giustizia? Si trasforma in un racconto, una narrazione che cambia a seconda di chi la racconta. “Carl” non propone una giustizia fatta di certezze, ma una giustizia che accoglie la complessità del reale. Un viaggio provocatorio che smonta la fede cieca nella razionalità, per proporre un nuovo modello: quello di una giustizia umana, in continua revisione, aperta all’errore. Perché la verità non è mai definitiva.
Indice
L’Opera
Carl – La prova è una finzione
L’Autore
Carl
Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità
Introduzione
Parte I – Il processo
Ex nihilo nihil fit
“Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole”
“La volpe sa molte cose ma il riccio che sa una grande”
Totò e la fontana di Trevi
La mancanza di interesse a commettere il reato
La presenza di interesse ad accusare
L’ingegneria probatoria
Dalla realtà alla ragionevolezza
I frammenti di visuale
La scala di grandezza
L’angolo di visuale
Le sovraccapacità informativa dell’accusa rispetto alla difesa e il fenomeno del “patteggiamento indotto”
Parte II – La prova
Il mito della prova scientifica
La prova è un fatto nuovo non è la lettura di una realtà preesistente
L’elaborazione cognitiva della prova
La prova lavora per “sintesi sottrattiva”
Sliding doors
L’“effetto pachinko” e la determinazione stocastica delle sentenze
La progressiva riduzione dei dati aumenta l’autorità dell’atto
La progressiva astrazione della “prova” aumenta l’autorità
Res iudicata facit de albo nigrum
Il convincimento del giudice sostituisce la prova
La prova non è un’entità concreta ma un ragionamento
La prova è la sua motivazione
Proof and evidence
La prova è un’ordalia
La prova testimoniale tra fallacia della memoria ed effetto certezza
La prova documentale
La prova presuntiva
I teoremi
I ragionamenti
Il tacchino induttivista
L’id quod plerumque accidit
Il miglior giudizio è quello fondato sulle prove false (Popper)
La demarcazione
La prova è un convincimento
I fatti “provati”
Il giudice non è né uno storico né uno scienziato
La fascinazione per la scienza
L’illusione di certezza
Overconfidence
L’“Effetto CSI” e la spettacolarizzazione delle indagini
Scienza e fede
Dreyfus, la prima vittima della prova scientifica
L’uomo è un umile credulone
La trappola delle certezze
Nessuno considera ciò che non c’è
L’illusione di focalizzazione
Parte III –Le decisioni
Ma i giudici pensano? La “cut and paste culture”
Una tecnologia che faccia domande e non che fornisce risposte
La colpevolezza è l’opzione di default
Le sentenze “a tesi”
Prima si decide (senza sapere perché), poi si motiva
La polarizzazione: tre giudici sono peggio di uno
La conformità: il “triplo cieco” non è una soluzione
Il groupthink giudiziario
La gestione della complessità
La gestione delle contraddizioni
La semplificazione
Il cervello rettiliano
I piccoli numeri
La probabilità soggettiva
Le impressioni ed esperienze passate
L’illusione della previsione
La fiducia non è un indicatore di accuratezza di giudizio
L’effetto Dunning-Kruger e la sindrome dell’impostore
Ripetere una falsità ci porta a credere che sia vera
Colpevole fino a prova contraria
Parte IV – De jure condendo
Una giustizia cruenta
Interpretazione dei fatti secondo buona fede
Aggregazione di ricostruzioni indipendenti
Valutazioni intermedie
Resoconti e non sentenze
Mediazioni al posto di decisioni
Conclusioni
Introduzione
Come si diventa colpevoli nelle “fabbriche della colpevolezza”?
Viviamo in un’epoca in cui l’ideale di giustizia è posto su un piedistallo, ammantato da una fiducia incrollabile nei processi investigativi e giudiziari che dovrebbero rappresentare il baluardo della verità. Tuttavia, se scaviamo sotto la superficie, scopriremo che questo ideale è spesso minato da una serie di distorsioni cognitive, bias e fallacie che compromettono la purezza delle indagini e delle decisioni giudiziarie. Il sistema di giustizia che dovrebbe incarnare l’imparzialità e la ragione, è invece sovente vittima delle stesse debolezze umane che cerca di correggere.
In questa opera, ci immergeremo in una profonda riflessione su alcuni dei problemi più insidiosi che affliggono il sistema giudiziario, esaminando come le indagini siano influenzate da errori sistematici, come le decisioni collegiali possano peggiorare piuttosto che migliorare la qualità delle sentenze, e come la nostra fiducia cieca nella “prova scientifica” possa condurre a conclusioni erronee. Il nostro percorso ci porterà infine a considerare un radicale ripensamento del concetto di sentenza, proponendo un modello di giustizia che restituisce dignità al lavoro dei giudici rendendoli storici dei fatti da giudicare.
Il procedere del dibattimento giudiziale è inframmezzato da errori cognitivi, che a loro volta si formano su indagini anch’esse viziate.
Un investigatore, a fronte di un nuovo caso, comincia a raccogliere prove, a interrogare testimoni, e a formulare ipotesi. Sembra un processo razionale e sistematico, ma dietro ogni passo si celano una serie di insidiosi ostacoli cognitivi. Bias di conferma, ancoraggio, eccesso di fiducia nelle proprie capacità sono solo alcune delle trappole che minano la qualità dell’indagine. Ogni decisione, ogni deduzione fatta durante questa fase iniziale può essere viziata da pregiudizi inconsci che distorcono la percezione della realtà.
Un investigatore che crede fermamente nella colpevolezza di un sospetto potrebbe inconsapevolmente cercare solo quelle prove che confermano la sua ipotesi iniziale, ignorando o sottovalutando elementi che potrebbero scagionare l’accusato. Questo bias di conferma non solo danneggia la qualità dell’indagine, ma pone le basi per una catena di errori che si ripercuoteranno nel processo successivo.
Ma il problema principale è che si giunge al processo decisionale sulla base di “prove” che tuttavia molto spesso sono solo illusioni e l’ammantarle di “scientificità” nulla aggiunge se non renderle più seducenti ma non più giuste.
Nella nostra società, la “prova scientifica” è spesso considerata l’argine definitivo contro l’errore. Tuttavia, questa fiducia è mal riposta. La realtà è che molte delle cosiddette “prove scientifiche” presentate in tribunale sono tutt’altro che infallibili. Analisi forensi, test del DNA, e altre tecniche sofisticate, pur se potenti, non sono esenti da errori. La nostra tendenza a sopravvalutare la validità di queste prove può condurre a gravi ingiustizie.
Pensiamo ad un’impronta digitale trovata sulla scena del crimine. La scienza forense ci dice che le impronte digitali sono uniche, ma la realtà è che l’interpretazione di queste prove è soggetta a errori umani. In alcuni casi, persone innocenti sono state condannate sulla base di prove “scientifiche” che si sono poi rivelate fallaci. Questo mette in luce un altro bias cognitivo: la nostra naturale propensione a vedere la scienza come infallibile, ignorando che anche le prove più avanzate possono essere fraintese o mal utilizzate.
A tanto si aggiunge che il processo decisionale è deviato e i meccanismi posti dall’ordinamento al fine di migliorare il detto processo decisionale possono essere non solo non utili, ma addirittura perniciosi.
Si potrebbe pensare infatti che, una volta che il caso giunge davanti a un collegio giudicante, il confronto tra più menti possa mitigare gli errori commessi nelle fasi precedenti. Tuttavia, la realtà è spesso più complessa. I gruppi decisionali non sono immuni ai bias cognitivi, anzi, in molti casi, il fenomeno della polarizzazione di gruppo può portare a decisioni ancora più estreme rispetto a quelle che i singoli membri avrebbero preso individualmente.
In una giuria che deve decidere su un verdetto di colpevolezza, se una maggioranza iniziale si orienta verso una certa conclusione, il processo di discussione collettiva tende a rafforzare tale opinione, rendendo sempre più difficile per le voci dissenzienti far valere le proprie argomentazioni. Questo effetto può condurre a decisioni di gruppo che non solo riflettono i bias individuali, ma li amplificano, portando a verdetti ingiusti.
Alla luce di queste considerazioni, sorge spontanea una domanda: è possibile immaginare un sistema di giustizia che eviti questi errori sistematici? La risposta risiede in un radicale ripensamento del processo decisionale stesso. Piuttosto che concentrare tutto il potere giudiziario in una “sentenza decisoria” che stabilisce in modo netto la colpevolezza o l’innocenza, potremmo abbracciare un nuovo modello basato su “resoconti illustrativi”.
Questi resoconti, a differenza delle sentenze tradizionali, non si limitano a emettere un verdetto, ma offrono una narrazione complessa e dettagliata di tutte le prove raccolte, incluse le incoerenze e le incertezze emerse durante il processo. L’obiettivo non è più emettere una decisione definitiva, ma fornire un quadro quanto più possibile accurato e completo della realtà, lasciando spazio alla possibilità di revisione e correzione degli errori.
In questo modello, l’autorità della giustizia non risiede più nella sua pretesa di infallibilità, ma nella sua capacità di comprendere anche le incoerenze e nell’arricchirsi continuamente.
La natura non emette sentenze.
Il giudizio non è più un atto finale, ma un processo in continua evoluzione, aperto a nuove informazioni, a nuove interpretazioni e, soprattutto, alla possibilità di rettificare le decisioni errate. Questo approccio rivoluzionario non solo permetterebbe di evitare tanti errori giudiziari, ma restituirebbe alla giustizia la sua dimensione umana e fallibile, rendendola al tempo stesso più giusta e più equa.
Un nuovo paradigma dunque che mette al centro l’umiltà e la complessità. In questo modo, potremmo finalmente superare le “fabbriche della colpevolezza” e avvicinarci a un sistema di giustizia che non si basa sulla certezza, ma sulla continua ricerca della verità.